Giuseppe Levi Cavaglione

Giuseppe Levi Cavaglione

Comandante del gruppo partigiano dei Castelli Romani, nel dicembre 1943 fu tra gli organizzatori dell'attentato antitedesco al ponte Sette Luci sulla linea Roma-Formia

Giuseppe Levi era nato a Genova nel 1911, unico figlio di Aronne e di Emma Cavaglione. 

Fin da giovane si distinse come oppositore del fascismo. Nel 1937 venne iscritto nel casellario politico centrale del Ministero dell’Interno, diventando uno dei centosessantamila sovversivi italiani, e nello stesso anno incontrò a Parigi i suoi compagni di “Giustizia e Libertà”, per arruolarsi nelle brigate internazionali in Spagna. Fu il padre Aronne ad andare a riprenderlo e a fermarlo in Francia. Il 10 maggio del 1938 venne però arrestato e mandato al confino, da cui venne liberato solo il 27 luglio, con la caduta del fascismo. Con l’armistizio dell’8 settembre però le cose peggiorarono di nuovo, e così Giuseppe, sfuggito all’arresto, fu costretto a lasciare Genova, dove era tornato per stare con i genitori. Il 15 settembre 1943 partì verso Roma. 

Là, con qualche difficoltà, trovò alcune persone indicategli dal Partito Comunista. Fu subito mandato a Genzano, piccolo centro dei Colli Albani a sud di Roma, perché lì si era a corto di persone che si intendevano di cose militari e Giuseppe, detto Pino, era stato in passato ufficiale dell’Esercito Italiano. Entrò così a far parte del gruppo dei partigiani dei Castelli Romani.

Qui legò molto con Marco Moscati, un ragazzo del popolo, ebreo romano, figlio di Cesare e Allegra Calò. Marco sarà successivamente una delle vittime del terribile eccidio alle Fosse Ardeatine, perpetrato dagli occupanti tedeschi il 23 marzo 1944.

Nonostante la lontananza e la lotta partigiana, i pensieri di Pino erano spesso rivolti ai suoi genitori, temendo che a Genova potessero essere in pericolo. La preoccupazione crebbe dopo che venne informato dallo stesso Marco della retata tedesca compiuta a Roma del 16 ottobre 1943: 

“che ne sarà stato dei miei cari? Ho mandato loro una lettera informandoli di quanto avvenuto a Roma. La riceveranno in tempo?”. 

La selvaggia azione tedesca a Roma destò in Pino un tale raccapriccio da indurlo ad esprimersi con violenza verso i tedeschi: 

“quando potrò cominciare a uccidere qualcuno di quei bruti? […] Non avevo mai sparato in vita mia contro nessun essere vivente, perché la caccia non mi piace e non immaginavo proprio che fosse così facile ammazzare un uomo. Ma i tedeschi sono uomini?”

Le preoccupazioni di Levi non erano ingiustificate. I genitori, nonostante si celassero sotto falsa identità, furono arrestati a Genova l’11 novembre 1943, trasferiti a Milano e deportati verso Auschwitz con il convoglio che partirà il 6 dicembre 1943. Non sopravviveranno alla Shoah. 

Quello stesso giorno, l’11 novembre, ai Castelli iniziarono i preparativi per un grande attentato partigiano contro un convoglio militare tedesco, con dinamite e ordigni a pressione per l’accensione delle micce. Gli esplosivi vennero procurati dal Fronte Militare Clandestino della Resistenza, mentre i detonatori furono portati da Roma da un inviato del Comitato di Liberazione Nazionale, di nome Colombo, detto Colombino. 

Due giorni dopo, il 13 novembre, Pino Levi venne nominato dal CLN romano come unico comandante delle squadre dei Castelli Romani, con il compito di riorganizzarle e ridistribuirne gli uomini. Fece, per questo, un giro di ispezione con Ferruccio Trombetti e l’amico Marco Moscati. 

L’attività principale di Levi e dei suoi partigiani era di appostarsi lungo le strade che portavano a Roma e attendere il passaggio dei camion e delle camionette tedesche con chiodi a quattro punte che foravano le gomme, fermare i mezzi, uccidere i nazisti e impadronirsi delle loro armi per costruirsi un arsenale utile per attentati più importanti. Il comando non stava mai in un posto fisso, un giorno era presso una casa contadina, l’altro nelle campagne di un ricco possidente terriero che tollerava la loro presenza, un altro ancora in mezzo a filari di vigneti. Agli inizi di dicembre si misero a punto i dettagli della grande azione partigiana, che sarebbe consistita in due simultanei attentati dinamitardi alle linee ferroviarie Roma-Formia-Napoli e Roma- Cassino.

È lo stesso Pino Levi a raccontarci, nel suo libro, quello che successe in quei giorni: 

“Ferruccio [Trombetti] ha ormai scelto i punti in cui effettuare le azioni dinamitarde sulle strade ferrate e in questi giorni sta studiando il modo di realizzarle. Ha grande importanza, in queste azioni, la scelta delle strade di accesso ai punti prescelti, perché gli uomini dovranno essere in pochi per non richiamare troppo l’attenzione (i cani da guardia che di notte abbaiano ad ogni stormir di fronda sono una vera maledizione) e dato che dovranno portare parecchi chili di esplosivo, micce e arnesi da lavoro di sterro, non potranno essere molto armati”.  

L’attentato è previsto per il 20 dicembre, manca un giorno: 

“è la vigilia della nostra grande azione. Siamo tutti eccitatissimi. Anche Marco [Moscati] ha perduto la sua calma abituale. Ferruccio nasconde il suo nervosismo fumando senza tregua e raccontando storielle grasse nel suo rumoroso dialetto bolognese. Il più calmo è Marco Aurelio, il minatore di Marino, che comanderà la squadra operante sulla linea Roma-Cassino. Saremo in quattro per ogni squadra oltre alla sentinella che si trova sul posto e che sarà macerata di acqua perché piove senza tregua, porca miseria!”. 

Il giorno successivo all’azione partigiana, Levi scrive trionfante: 

“la nostra grande azione si è finalmente realizzata con un esito di gran lunga superiore alle nostre stesse previsioni. Non so con quale animo noi ci sentiremmo di rivivere un’altra notte simile a quella. Invece, oggi il ricordo delle cadute nella fanghiglia viscida, le lividure per gli urtoni contro le rocce, le graffiature degli sterpi spinosi, le ferite alle mani, il freddo, la fatica lunga e brutale che talora diventava così dolorosa da far sorgere il desiderio di sdraiarsi anche lì in quel fango , sotto quella pioggia per riposarsi, per dormire – basta, basta, non camminare più, non sentire più le spalle indolenzite sotto il peso delle bisacce  – sono cancellati dalle fiammate che si sono accese  sui binari e dal rombo che ha risvegliato la campagna dormiente. Non so capacitarmi come Ferruccio abbia fatto, con tutto quel buio, quella pioggia, quel fango, a sistemare nei punti giusti le micce e le capsule di fulminato di mercurio in modo da assicurare che l’esplosione avvenisse contemporaneamente e lungo tutto il tratto coperto dal treno e non già al passaggio del locomotore… Pochi minuti dopo mezzanotte, finalmente era tutto finito. Anche noi, che non avevamo partecipato al lavoro e che avevamo solo compiti di guardia e di difesa, eravamo estenuati dall’ansia e dall’attesa. Ci portammo ad un centinaio di metri dal ponte, sotto un uliveto in pendio. Il viso di Ferruccio appariva, anche al buio, letteralmente disfatto e sfigurato dalla stanchezza. Ad un tratto uno mi ha scosso. Il treno… Siamo tutti balzati in piedi ansando. Il treno proveniente dal sud avanza con snervante lentezza. Il locomotore è già sul ponte. Sento un vuoto allo stomaco che mi toglie ogni forza. Tutto il treno è sul ponte. Ne è già quasi alla fine. Non accadrà nulla neanche questa volta? L’ansia mi serra la gola. All’improvviso un’alta colonna vermiglia si alza dalla testa del treno e il locomotore si impenna e scompare, mentre lungo tutto il convoglio le fiammate rosse delle esplosioni squarciano l’oscurità. Uno schianto terribile e un fragore prolungato si propagano di collina in collina diffondendosi nell’ampia vallata pianeggiante. Vediamo la striscia nera del treno confondersi, contorcersi come una cosa viva nel corpo giallastro delle fiammate.” […] “Ci precipitiamo di corsa giù dalla collina, sguazzando, scivolando nel fango viscido e tenace, felici e sconvolti” […] “nei pressi del comando, un rombo rauco proveniente da oltre le colline che nascondono Genzano ci avverte che anche all’altra squadra il colpo è riuscito”.

Il bilancio dei due attentati compiuti quella notte dai partigiani fu notevole: un convoglio bloccato a 25 chilometri di distanza da Roma, due vagoni rotolati in fondo valle, uno penzolante giù da un’arcata del ponte, e altri due, rimasti sul binario, accavallati uno sull’altro; un altro treno, diretto al fronte carico di carburante e munizioni, distrutto simultaneamente. Il CLN non volle mai attribuirsi le responsabilità del sabotaggio. Nel suo rapporto Pino Levi stesso chiese, infatti, di non darne la notizia alla stampa clandestina, per timore di tremende ritorsioni sulla popolazione locale: 

“i tedeschi devono ignorare che siamo stati noi. Si farà anzi il possibile per far credere che il colpo sia opera di sabotatori alleati”.  

Le gesta del gruppo partigiano di quella notte sono immortalate nel film “Un giorno da leoni”, di Nanni Loy, del 1961.

Il 23 gennaio successivo arrivò la buona notizia: gli alleati erano sbarcati ad Anzio. I resistenti dei Castelli Romani continuarono le loro azioni, sebbene la zona fosse percorsa in lungo e in largo da truppe tedesche, ammassate tra Genzano, Albano, Ariccia, Frascati, campagne flagellate anche dai bombardamenti anglo-americani. In quel territorio, ormai diventato un gigantesco campo di battaglia usato dai tedeschi come retrovia per contrastare l’avanzata degli Alleati verso Roma, non c’era più possibilità di condurre la lotta armata. Pino Levi, a fine gennaio si ritirò a Roma, da dove fu mandato poco dopo, insieme a Moscati, a Zagarolo e poi a Palestrina.

Il 4 marzo 1944 ritornarono a Roma. Il CLN aveva ordinato il rientro di Levi viste le difficoltà di proseguire la lotta nei Castelli Romani. Il suo compito di partigiano era ormai terminato. Era stanco, con i nervi rotti, spento, così si definì lui. Alla fine fu accolto nel convento di S. Onofrio, dove già era ricoverato il fratello con la moglie e la figlia, e dove si trovò al momento della liberazione da parte degli Alleati. Nel 1945 scriverà il suo diario, con un nuovo cognome aggiunto al suo, Cavaglione, come sua madre, Emma Cavaglione, persa nella Shoah.



Riferimenti bibliografici

Pino Levi Cavaglione, Guerriglia nei castelli romani, Einaudi, Roma 1945 (La Nuova Italia, Firenze 1971; Il Melangolo, Genova 2006)

Lidia Maggioli, Antonio Mazzoni, Il Ponte Sette Luci. Biografia di Giuseppe Levi Cavaglione, Metauro, Rimini 2012

Giuseppe Levi Cavaglione, 1943 ca.

“Guerriglia sui Castelli” è il diario partigiano di Giuseppe Levi Cavaglione, pubblicato da Einaudi nel 1946 

Giuseppe Levi Cavaglione fra il 1938 e il 1943 venne mandato al confino in diverse località dell’Italia centrale – prima a  San Severino Rota, Fuscaldo e Nocera Inferiore e poi, fra il 1940 e il 1943 Urbisaglia, Gioia del Colle, Sforzacosta, Apecchio,  Sassocorvaro

Il ponte Sette Luci sulla linea ferroviaria Roma-Formia fu fatto saltare da un attacco dinamitardo partigiano nella notte fra il 20 e il 21 dicembre 1943. Provocò quattrocento vittime. Levi Cavaglione fu tra gli esecutori di quell’attacco 

Il ponte Sette Luci oggi, sulla linea Roma-Cassino 

La sezione ANPI dei Castelli Romani nel 2019 ha posto una targa sotto il ponte Sette Luci,  in memoria dell’azione partigiana del dicembre 1943  

Levi Cavaglione fu comandante del Gruppo Partigiano dei Castelli Romani, attivo nella zona di Frascati 

La storia dell’attentato al ponte Sette Luci fu raccontata nel film di Nanni Loy,  “Un giorno da leoni”, del 1961