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Hermann Wygoda
Ingegnere polacco, dopo traversie inenarrabili passate a Varsavia e a Berlino, giunse in Italia, sotto mentita identità, per lavorare per l’Organizzazione nazista Todt. Fuggito nelle montagne sopra Savona, divenne comandante partigiano prima di una Brigata e poi di una Divisione.
“Mi svegliai di soprassalto al suono simultaneo del sistema di difesa aerea e delle esplosioni tonanti della contraerea. Erano circa le 4 del mattino del primo settembre 1939. All’epoca dell’invasione, vivevo in un appartamento del quartiere Praga di Varsavia”.
Così inizia il diario di Hermann Wygoda, ebreo polacco nato a Offenbach in Germania il 18-11-1906.
In Polonia, dopo qualche mese, gli occupanti impongono agli ebrei di indossare al braccio una fascia di stoffa bianca con una stella di Davide blu e iniziano a perseguitarli per strada. Questi provvedimenti sono mano a mano inaspriti fino all’ordinanza del 12 ottobre 1940 che istituisce un ghetto, a Varsavia, e in decine di altre città. Il ghetto raduna, forzatamente, centinaia di migliaia di persone dentro a quartieri-prigione a cielo aperto, recintati con alti muri sovrastati da filo spinato, dai quali esse non possono più uscire e nei quali sono esposte a fame e malattie. La popolazione del ghetto di Varsavia, accresciuta dagli Ebrei costretti a trasferirsi dalla città vicine, supera le 400.000 persone costrette a vivere in un’area di meno di due chilometri quadrati. Solo la fornitura clandestina di cibo e medicinali integra le misere distribuzioni ufficiali. In seguito, il 22 luglio 1942, inizieranno le deportazioni verso il centro di sterminio di Treblinka, dove la maggior parte degli ebrei troverà la morte.
Wygoda sa bene il tedesco per aver vissuto da ingegnere a Berlino, grazie a generosi amici, si procura un nome falso che non rivela la sua identità ebraica, ma si riappropria della sua identità di polacco nato in Germania. Un caso, questo, molto rispettato dai nazisti invasori. Questo stratagemma gli fa attraversare incolume molte situazioni difficili. Riesce ad intrufolarsi nel ghetto di Varsavia e portarvi cibo e medicine. Nessun ebreo può girare libero per la Polonia, e, invece, lui gira in treno recandosi a trovare la madre e il fratello in un’altra città, Kossow. Supera brillantemente un controllo tedesco in treno:
“Da quel momento iniziai a pensare che fossi riuscito a nascondere la paura, a camminare eretto e ad essere pronto a mentire sulla mia identità con un’espressione ferma, allora la mia vita avrebbe potuto non essere penosa come quelle degli altri ebrei.”
“Non c’erano regole da seguire. Non ci sono, né ci saranno mai manuali che possano essere d’aiuto a un uomo braccato come un animale selvaggio solo perché non è nato ariano. Non c’erano norme che potessero garantire la salvezza; tutte le nostre decisioni dovevano essere rapide e prese ad hoc, a seconda dei casi. Un fatto importante giocava a mio favore: ero nato in Germania e parlavo tedesco senza accento…”
La Germania ha continuo bisogno di forza lavoro. Tutti i maschi vengono richiamati, la produzione rallenta, apposite agenzie locali cercano lavoratori dovunque da collocare in Germania e nell’Europa occupata. Ce ne sono anche in Polonia di agenzie. Hermann decide di rispondere ad un’inserzione sul giornale, si reca in un ufficio dove dichiara di sapere il tedesco. Come polacco, “nativo tedesco”, è subito accettato. E’ nominato capo trasporto e mandato per l’addestramento a Berlino con un gruppo.
Così, dopo 14 anni, Hermann ritorna nella città della sua giovinezza. Viene arruolato ufficialmente nell’Organizzazione Todt, assieme al suo amico Léon, un altro ebreo con documenti falsificati che ha avuto la sua stessa idea. Indossano ambedue la divisa marrone dell’Organizzazione statale responsabile di tutte le costruzioni di guerra del Reich, ponti, fortificazioni e trincee comprese.
Il suo incarico è facile: deve aspettare in stazione i lavoratori stranieri e farli accompagnare al campo di addestramento.
“Nel 1943, Berlino era un nascondiglio affidabile. La città e i dintorni erano il posto più sicuro in cui un ebreo potesse vivere in Europa, a patto che avesse dei documenti che non mostrassero la sua identità, perché non poteva essere distinto dal gran numero di gente mediterranea all’epoca presente in città.”
Lui e Léon stanno sempre sul chi vive, temendo prima o poi, di essere smascherati e perduti. Hermann è talmente benvoluto dal suo capo che questi acconsente a procurargli una pistola.
“C’era un’unità della Gestapo al piano di sopra del nostro ufficio in Friedrichestrasse. Incontrare gli agenti ogni giorno sulle scale mi rendeva consapevole, ogni minuto che rimanevo nell’edificio, del pericolo di nascondermi lì. All’insaputa di tutti ero costantemente in guardia, pronto a balzare come un animale selvaggio al minimo segno di incertezza. Ero sempre conscio della mia situazione precaria”.
Non vedono l’ora di trovare il modo di lasciare Berlino, Lui e Léon. Devono solo decidere dove andare; teoricamente, come responsabili del lavoro, hanno possibilità di spostarsi ovunque nei territori occupati dalla Germania. Dopo varie discussioni, decidono di tentare di fuggire in Italia, riempiendo i moduli di richiesta di trasferimento che avevano rubato in precedenza.
Prendono un treno diretto al Sud, i loro documenti falsi superano ogni controllo. Giungono a Milano il 20 dicembre 1943, da lì a Savona alla sede dell’organizzazione tedesca Todt. Si presentano all’ingegnere capo che è felicissimo di accoglierli e poter contare su due nuovi responsabili.
Hermann, forte della sua esperienza di ingegnere civile, viene incaricato, assieme al suo “assistente” Léon, della fortificazione della spiaggia tra Savona e Varazze con un muro anti carro alto tre metri e della costruzione dei bunker sulla collina. I tedeschi si aspettano uno sbarco alleato in Liguria. Lui, intanto, si tuffa nello studio dell’italiano, trascorre ore a leggere tutto quello che trova e concepisce anche l’idea di acquistare una piccola imbarcazione a motore e tentare la traversata verso la Corsica, già liberata dagli Alleati. Si tratta di un centinaio di miglia: con il tempo favorevole, può arrivarci e mettersi in salvo dai nazisti per sempre.
“La sera del 12 febbraio 1944, presi le mappe, l bussola nautica e altre attrezzature dal loro nascondiglio e li posai sul comodino da notte. La nostra partenza era prevista per la sera successiva alle 11. Mi addormentai facilmente, nonostante l’eccitazione dovuta ai preparativi febbrili degli ultimi giorni. Dovevo dormire davvero profondamente perché il mattino seguente non udii i passi nel corridoio fuori dalla mia porta. Intorno alle 4 mi svegliò qualcuno che bussava forte. Mi misi i pantaloni e andai alla porta scalzo. E’ difficile descrivere la sensazione che provai quando aprii. C’erano 5 uomini. L’ufficiale, un capitano, mi spinse davanti a se abbastanza gentilmente. Mi chiese il mio nome e il libretto di servizio della Todt. Cercai di dire che c’era stato un errore, ma lui tagliò corto. Intanto che mi vestivo lo vidi prendere la pistola dalla sedia e guardare l’attrezzatura pronta per il viaggio. Non disse una parola. Leon era rimasto a letto immobile e guardava soltanto…Chiesi il permesso di lavarmi e mi fu accordato…Seduto sui sedili posteriori della macchina, tra due nazisti, cercai, senza successo, di capire chi avesse fatto la soffiata”
Qualche cosa è andato storto. Forse l’atteggiamento suo e di Léon ha destato l’attenzione dei tedeschi. Wygoda è perplesso per le buone maniere usate nell’arrestarlo. Sembra che stiano catturando una spia internazionale di grande importanza e non un profugo ebreo che cerca di salvarsi la vita. Gli dicono che è in detenzione investigativa. Evidentemente, è stato scambiato per una spia inglese. Intanto, ha perso il suo amico Léon di cui, purtroppo, non saprà più niente.
Nella caserma di Savona che funge da prigione, scarsamente guardata da bersaglieri italiani, Hermann incontra due soldati tedeschi che hanno disertato l’esercito tedesco. Li convince della necessità di evadere: altrimenti, saranno tutti e tre fucilati. Una sera, mettono in pratica un piano.
Wygoda finge di sentirsi molto male, comincia a rotolarsi per terra, ulula di dolore, la guardia entra nella cella per vedere che cosa sta succedendo, e viene prontamente colpita alla testa da uno dei tre. In fretta, i prigionieri si arrampicano verso una finestrella del bagno, la sfondano e si buttano fuori. Corrono a perdifiato verso la montagna alle spalle di Savona, decidono di separarsi per poter meglio far perdere le loro tracce.
Wygoda vaga per la montagna per ore senza fermarsi mai. Bussa ad un casolare, viene subito accolto bene perché è corsa voce che c’è un ricercato, forse una spia inglese, sulle montagne. Un’altra famiglia contadina gli indica una grotta dove può rifugiarsi, sotto una sporgenza rocciosa, praticamente, irraggiungibile. Quel posto diventa la sua base permanente.
Qualche settimana dopo, due uomini armati, che si qualificano come membri del Comitato di Liberazione Nazionale, avvicinano Wygoda e gli chiedono di seguirli per incontrare il loro capo. Dopo una breve marcia, viene presentato al capo partigiano della II Zona ligure, Carlo Farini, detto Simon e a Gin Bevilacqua detto Leone, i quali, senza tante cerimonie, gli chiedono se sa maneggiare le armi e se vuole aggregarsi ai partigiani. Saputo che in Polonia era stato ufficiale, gli affidano il comando di un gruppo di uomini.
Hermann, che non vedeva l’ora di unirsi ai partigiani, accetta subito, prende il nome di battaglia di Enrico. Gli viene presentata la sua formazione, denominata Calcagno.
“Il giorno successivo adunai tutti i 117 uomini del distaccamento e tenni un discorso, come meglio riuscii con il mio italiano incerto. Non ero proprio un oratore, ma il mio discorso – tenuto con forte accento straniero ad un pubblico di uomini prevalentemente più giovani di me – catturò l’attenzione. Dissi che la forza era l’unica cosa che il nemico avrebbe rispettato, che l’unico modo per essere forti era essere uniti negli intenti e che l’unica via per ottenere unione era la disciplina…”
Il numero dei partigiani va incrementandosi ogni giorno. Nel maggio del 1944 gli uomini sono diventati 300. Alla fine dell’estate, la formazione conta più di 700 persone.
“Dopo la guerra, molte persone, in particolare ufficiali inglesi e americani, mi chiesero come ero riuscito a gestire un gruppo così numeroso di gente armata senza avere nessun problema e senza disporre di mezzi punitivi. Non avevo risposte per la loro domanda. Non ci avevo mai pensato. L’unica cosa che avevo promesso ai miei uomini era che, con il loro aiuto, avremmo sconfitto il nemico molto presto.”
Il vettovagliamento della truppa è il grande problema: spesso, rapiscono una persona benestante filofascista. Per lasciarlo andare, chiedono scarpe, medicinali e altre cose per finanziare la resistenza.
“Per tutte le loro fatiche gli uomini non ricevevano una paga, erano volontari. Avevamo però bisogno di soldi per comperare cibo dai contadini o con il loro aiuto. Pagavamo i loro prodotti e i loro servizi subito e in contanti, perché erano poveri e non potevano permettersi di dare via nulla. Grazie a questa politica, godemmo sempre della piena cooperazione della gente dei dintorni… Nessun movimento partigiano, da nessuna parte del mondo, può sopravvivere senza l’appoggio della popolazione civile. I civili sono i soli in grado si tenere informati i partigiani mettendoli così nelle condizioni di infliggere perdite al nemico”
Hermann istituisce un tribunale partigiano formato da procuratori e studenti in legge dell’università di Genova che comminano pene ai partigiani indisciplinati. Per i tedeschi catturati, invece, Wygoda si arroga la possibilità di giudicare autonomamente e di far mettere anche a morte, se lo ritiene giusto.
Il primo febbraio del 1945, le 4 brigate sono ufficialmente riunite in una Divisione della quale gli viene assegnato il comando.
Hermann sa che la Resistenza è politicizzata e le formazioni, specie dopo l’estate del 1944, si richiamano a diversi partiti politici, ma non si lascia coinvolgere in una questione che considera di competenza dei suoi amici italiani. Il suo interesse in Italia è combattere la barbarie nazista e nulla più.
Negli ultimi giorni, prima del 25 aprile 1945, scende a Savona con 250 uomini con l’idea di formare una polizia partigiana allo scopo di mantenere l’ordine e la pace. All’arrivo degli Alleati, i partigiani depongono le armi senza ritardi o incidenti significativi.
Il 1 maggio del 1945, la folla lo chiama a gran voce “Enrico, Enrico”, e viene applaudito in piazza. Avviene la consegna ufficiale dei poteri ai civili e Enrico fa un gran discorso, ultimo atto ufficiale della sua carriera di partigiano.
Mano a mano che torna la normalità, Hermann comincia a rivedere gli ultimi sette anni della sua vita e cade in depressione per ciò cui ha assistito, pensa continuamente alla sua famiglia e alle vittime del ghetto di Varsavia. Concepisce l’idea di partire e andare più lontano possibile.
“Attraverso gli anni di guerra e, in particolare, durante gli ultimi due anni di quella lotta per la sopravvivenza, non mi ero reso conto che poteva esserci qualcosa di più nella vita se non combattere l’odiato nemico e annientarlo il più possibile. Anche se la lotta era intensa e lo spiacevole compito di uccidere era frequente, di certo non si uccideva indiscriminatamente. Noi non abbiamo mai perso di vista il fatto che stavamo lottando per la nostra propria libertà unitamente a coloro che erano caduti vittima della selvaggia, barbarica aggressione dell’abominevole macchina di sterminio nazista. Avevamo anche ben chiaro nella mente che non ogni tedesco era un nazista…”
In seguito, riceve un attestato del Comando Alleato in riconoscimento del contributo dei suoi partigiani allo sforzo bellico, e, il 25 giugno 1945, viene invitato anche a Milano. In alta uniforme, il Generale Clark gli consegna la medaglia di bronzo americana, una decorazione data a solo 10 partigiani italiani. Questo fatto induce Hermann a scegliere l’America come nuova patria.
E là, in un tranquillo ambiente borghese di una cittadina secondaria che, nel 1967, riprende in mano le sue memorie, scritte su un quaderno sulle montagne di Savona, e traduce la sua vicenda dal polacco all’inglese consegnandoci uno dei più appassionanti libri sulla Resistenza italiana.