Home » La mostra digitale » Renato Levi
Renato Levi
In Nordafrica passò dalla Legione Straniera ai Servizi Segreti britannici. A Firenze fece parte del gruppo di Radio Co.Ra
Renato Levi era nato a Trieste il 28 maggio 1914, il secondo dei sei figli di Alberto ed Ermenegilda Kobler. Benedetto, Renato, Enrica, Giuseppe, Mario, Alice: guardandoli tutti insieme in una foto di gruppo del 1938, si riconoscono per un tratto particolare degli occhi che hanno preso dal padre Alberto. Renato però un poco si distingue dagli altri: perchè era leggermente più alto e per via di quei capelli rossi che, come per Alice, si intuiscono anche dalla foto in bianco e nero…
La famiglia Levi era numerosa e di modeste condizioni: il capofamiglia, Alberto, era un semplice impiegato del Ministero delle Finanze a Trieste e sei figli da mantenere erano evidentemente impegnativi. Fu anche per questo che Renato, appena raggiunta la maggiore età, decise di arruolarsi volontario in Marina come allievo telegrafista: era un modo per dare il suo contributo alle magre risorse della famiglia.
Renato prestò servizio nella Regia Marina militare per più di sei anni e il 1° ottobre 1938 fu promosso sergente. Fu quasi un’ironia della sorte: proprio in quell’autunno del 1938 furono emanate le leggi antiebraiche fasciste e così dal 1° gennaio 1939 Renato Levi, appena salito di grado, venne collocato in congedo assoluto. Le leggi razziali fasciste avevano spezzato improvvisamente e senza rimedio quel fragile equilibrio che negli ultimi anni Renato era riuscito a creare per sé e per la famiglia.
La precarietà e il senso di impotenza che le leggi razziali avevano provocato, spinse Mario, il più giovane dei fratelli maschi di Renato, a lasciare Trieste e l’Italia per emigrare in Palestina; Benedetto, che già era sposato, Giuseppe, Enrica e Alice rimasero a Trieste accanto ai genitori, cercando di sopravvivere come meglio potevano. Quanto a Renato, resistette a Trieste, senza lavoro, per non più di sei mesi. Poi anche lui, come Mario, scelse la via dell’emigrazione, ma non in Palestina, bensì a Parigi. Era l’inizio di luglio del 1939.
Giunto a Parigi, grazie all’aiuto di Angelo Donati – un antifascista, ex presidente della Camera di Commercio italiana a Parigi – riuscì a trovare un lavoro e così anche a mandare qualche rimessa al resto della famiglia a Trieste.
Anche quel nuovo equilibrio però durò poco: nel 1940 la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia, fece di Renato Levi a Parigi un “cittadino suddito di paese nemico” e come tale era destinato ai campi di internamento. A quel punto, per evitare l’internamento, a Renato non rimaneva che un’alternativa: arruolarsi nella Legione Straniera. E così fece. Venne inviato in Algeria, prima a Sidi Bel Abbes e poi a Colomb Bechir, in pieno Sahara; in entrambi i casi venne adibito ai lavori nelle miniere di carbone. Dal solcare i mari, era passato a scavare nelle profondità della terra….
In una lettera, inviata nei primi mesi del 1940 al fratello Mario in Palestina, Renato raccontava della sua nuova vita, cercando di spiegare la sua scelta:
“Si, sono soldato sotto i colori della Francia e faccio il mio mestiere. Quando la guerra sarà finita potrò avere un lavoro, una vita e siine certo, Mario, che penserò sempre ai nostri vecchi…Sai, avrei voluto venire anch’io là, con te, a rifarmi un’esistenza, una vita per dimenticare il male che mi avevano fatto dopo aver fatto il mio dovere per tanti anni…Ti dirai perchè non hai atteso? Non potevo, non potevo! La terra mi bruciava sotto i piedi. Chi ha vissuto sul mare per tanti anni non può venire tutto in un momento un verme della terra. Poi, casa nostra in completa rovina, mamma nostra morta di fatica per darci da mangiare a noi già quasi tutti uomini. No! Non potevo più…Un domani forse potrò ritornare a vedere la mia Trieste, mamma nostra, papà e tutti, a testa alta, per dimostrare con non siamo dei vili, dei deboli da gettar via, nella disperazione, nel disonore…”
Del suo arruolamento nella Legione straniera Renato informò solo il fratello Mario: i genitori non dovevano sapere, non dovevano aggiungere nuove preoccupazioni a quelle che già avevano tutti i giorni. Nelle parole di Renato si coglie la nostalgia per la famiglia, per Trieste e per quel mare sul quale aveva navigato per anni. Ma si intuisce forte anche il desiderio del riscatto, della rivalsa… desiderio che risulta ancora più netto nella lettera che inviò quasi sei mesi dopo, sempre al fratello Mario. Era il giugno del 1940 e scriveva:
“Tutti questi uomini si battono per la libertà, per la vita. Io credo che il giorno in cui la vittoria arriderà ad uno o all’altro dei combattenti sarà o un periodo lungo di pace o una schiavitù fino alla morte. Ecco perché sono qua, ecco perché, se tutto dovesse capitolare da parte degli Alleati preferirei la morte alla vita con loro, con il boia.”
Nel novembre del 1942 lo sbarco alleato in Nordafrica – la nota operazione “Torch”, torcia – rappresentò l’occasione per Renato di abbandonare definitivamente le miniere:
“Venne finalmente lo sbarco alleato in Africa del Nord. I nostri aguzzini, sorveglianti tedeschi, divennero pecore. Si raccomandavano, invocando la famiglia, pietà. Nessuno gli fece nulla. Non eravamo vili tedeschi, bestie con i vinti, servi con i vincitori.
Il nostro trattamento cambiò dal giorno alla notte. Molti se ne andarono senza meta. Io attesi fino a che una commissione alleata non venne ad interrogarci sul nostro passato, sulle nostre capacità. Con me furono addirittura incredibili. Alti ufficiali che mi offrivano sigarette, viveri, ecc. chiedendomi in fondo se volevo arruolarmi nell’esercito alleato. Chiesi qualche giorno per pensarci memore del trattamento avuto dai francesi, poi tagliai la testa al toro ed accettai. Nel mese di giugno venne l’ordine al comando del campo d’inviarmi ad Algeri, dove fui arruolato nel corpo dei Pioneer Corps. Qui stetti pochi giorni. Mi prelevarono e mi portarono in un appartamento ad Algeri dove un gruppo di ufficiali mi propose di entrare nel Servizio Informazioni, spiegandomi come l’Italia stava per capitolare e come si doveva affrettare la fine della Germania. Aderii! Fui sottoposto ad un corso di paracadutisti, mi furono date lezioni molto approfondite sul modo di comportarmi, sulla decifrazione dei messaggi, sul metodo di lavorare, sulla mia nuova personalità, sul mio passato fasullo e tutto ciò valse, in molte occasioni, a salvarmi la pelle.”
Quando nel settembre del 1943 gli Alleati sbarcarono sulle coste della Calabria e della Puglia e diedero il via alla liberazione dell’Italia meridionale, Renato Levi era al loro fianco. Come telegrafista fu incaricato di almeno due missioni nel nord Italia, una a Carrara e una seconda a Pavia. Rientrato a Napoli, alla metà di ottobre del 1943 fu inviato a Bari e da qui incaricato di una nuova missione, questa volta a Firenze dove bisognava trasportare una ricetrasmettente per i collegamenti via radio fra le forze alleate e i partigiani delle zone occupate dai tedeschi.
Renato partì da Barletta, su un motopeschereccio diretto a Porto Corsini, nei pressi di Ravenna. A guidare quella missione era un ufficiale italiano, Nicola Pasqualin, anch’egli al servizio degli inglesi. Da Porto Corsini, passando per Ravenna, raggiunsero finalmente Firenze dove entrarono in contatto con Enrico Bocci, uno dei due capi della Commissione Radio del Partito d’Azione.
Va ricordato che a Firenze, fra il settembre e il novembre del 1943, il Partito d’Azione aveva creato un’articolata rete di comitati e commissioni, fra le quali, appunto, anche una Commissione Radio.
La Commissione Radio rispondeva al Servizio Informazioni del Partito d’Azione e aveva il preciso compito di tenere i contatti tra i partigiani e il Comando Alleato di stanza a Bari. A capo della Commissione, insieme a Bocci, c’era Carlo Ludovico Ragghianti.
La stretta collaborazione degli uomini della Commissione Radio di Firenze, con Pasqualin e Levi diede vita a quell’esperienza poi divenuta nota con il nome di Radio Co.Ra.
Centro operativo di Radio Co.Ra furono in un primo tempo i locali della casa editrice Bemporad, in via dei Pucci. In Radio Co.Ra, insieme a Bocci, c’erano: Italo Piccagli, capitano dell’aeronautica, pilota, esperto di navigazione aerea, prezioso nel guidare i lanci aerei delle vettovaglie e delle armi fornite dagli Alleati; Carlo Ballario, fisico, esperto in campi radio e installazioni di antenne radio; Luigi Morandi, studente di ingegneria, tecnico delle radiotrasmissioni.
A Nicola Pasqualin era affidata la gestione del cifrario, mentre Gilda Larocca era la staffetta del gruppo: portava i messaggi da codificare e ritirava quelli già decifrati.
Renato Levi, infine, con il nome in codice “Ruddy”, era il radiotelegrafista incaricato della trasmissione delle informazioni.
Il collegamento via radio veniva effettuato da punti diversi di Firenze, talvolta anche da fuori città, così da evitare che i tedeschi riuscissero a localizzare la stazione di trasmissione.
Sulla base di appuntamenti quasi sempre prefissati con un codice segreto, Renato Levi si recava sul luogo stabilito per la trasmissione. Ogni volta portava con sé i pesanti quarzi stabilizzatori di frequenza, indispensabili per il collegamento radio. Il contenuto dei messaggi da trasmettere era costituito quasi sempre da informazioni di carattere militare utili alle operazioni Alleate: la dislocazione dei comandi tedeschi, il traffico ferroviario, i ponti da bombardare, la cartografia della Linea Gotica.
Nel gruppo di Radio Co.Ra, Levi era tra coloro che correva i maggiori rischi: perchè agente alleato e anche perchè ebreo. Anche per questo cambiava continuamente il suo rifugio e trascorreva la notte in luoghi sempre diversi.
Nel corso delle settimane, l’intensificarsi delle attività di trasmissione portò da quattro a nove gli addetti ai collegamenti radio. Nel maggio del 1944, inoltre, la sede operativa di Radio Co.Ra venne trasferita da via dei Pucci a piazza D’Azeglio, in un appartamento appositamente affittato.
Il 7 giugno 1944, mentre già era giunta a Firenze la notizia della liberazione di Roma e subito dopo quella dello sbarco alleato in Normandia, gli uomini di Radio Co.Ra erano riuniti nell’appartamento di piazza d’Azeglio. Erano in sei: oltre a Enrico Bocci, Luigi Morandi e Gilda Larocca c’erano Carlo Campolmi, Guido Focacci, e Franco Gilardini. Per insistenza di Piccagli, quel giorno il collegamento via radio si sarebbe fatto non dalla soffitta dell’Istituto di fisica di Arcetri, scomoda da raggiungere, bensì dalla sede di piazza d’Azeglio da dove si era sempre evitato di trasmettere perché conteneva l’archivio con i cifrari, le copie dei messaggi e altri documenti segreti. Quel giorno in piazza d’Azeglio Renato Levi non c’era: per prudenza Morandi gli aveva raccomandato di non farsi vedere; avrebbe fatto lui stesso da marconista. Quel giorno i militari della polizia tedesca fecero irruzione nell’appartamento di piazza d’Azeglio. Chiesero subito come si accedesse al tetto; Gilda Larocca, sperando di distrarli, si offrì di accompagnarli. Nella cucina soprastante, però, Morandi era intento a trasmettere alla radio. Alla vista in alto dell’antenna mobile, distesa tutt’intorno al pianerottolo, come una corda per stendere il bucato, i due tedeschi scostarono la donna, la mandarono a sbattere contro il ballatoio e in un attimo furono nel locale. I sei di Radio Co.Ra vennero bloccati e messi tutti con la faccia al muro e le braccia alzate.
Nella confusione del momento, approfittando di una breve distrazione, Morandi afferrò rapido la pistola che uno dei tedeschi aveva posato sul tavolo e gli sparò. Il tedesco morì sul colpo; Morandi rimase ferito nello scontro a fuoco che ne seguì. Morirà pochi giorni dopo in ospedale.
Bocci, Larocca, Campolmi, Focacci e Gilardini vennero arrestati e portati nella sede della polizia politica tedesca – nella cosiddetta “Villa Triste” di via Bolognese – dove vennero interrogati e torturati. Piccagli venne fermato poco dopo e condotto anch’egli alla Villa Triste.
Durante gli interrogatori Bocci e Piccagli si assunsero la responsabilità di ogni azione, nel tentativo di scagionare e salvare la vita agli altri quattro. Bocci venne torturato fino a provocarne la morte. Piccagli invece venne condotto nel bosco di Cercina dove venne fucilato insieme ad altri sei prigionieri – Anna Maria Enriques Agnoletti, un’antifascista del Partito d’Azione in contatto con i partigiani dei Castelli Romani; quattro paracadutisti della missione di Pasqualin, inviati dall’8° Armata Alleata per rafforzare il gruppo clandestino di Radio Co.Ra, e un partigiano cecoslovacco.
Durante la detenzione, Gilda Larocca tentò per due volte di togliersi la vita, nel timore di non resistere alle torture; più tardi, insieme a Carlo Campolmi e Franco Gilardini, fu condotta nel campo di transito di Fossoli per essere deportata. A Verona, durante il carico, tutti e tre riuscirono a fuggire dal convoglio diretto a Mauthausen. Focacci, dopo le torture subite nella Villa Triste, il 27 giugno del 1944 venne deportato a Mauthausen da dove tornerà nel maggio del 1945.
Renato Levi, grazie alla prudenza di Luigi Morandi, scampò alla retata di piazza d’Azeglio. Di quanto era accaduto ai compagni di Radio Co.Ra fu informato dalla moglie di Piccagli, Ruth Weidenreich – anch’essa poi arrestata e, in quanto ebrea, deportata ad Auschwitz.
Levi ebbe appena il tempo di lasciare la pensione dove aveva trascorso la notte. Mentre tedeschi e fascisti lo cercavano, aveva trovato rifugio presso l’abitazione di un’amica, Nella Scotti.
Mentre si trovava nascosto, Levi ricevette dal suo comandante, Nicola Pasqualin, l’ordine di recuperare una delle tre radio che utilizzavano per i collegamenti con gli alleati. La radio, nascosta nel punto di trasmissione di Rifredi, venne recuperata e consegnata a Carlo Ludovico Ragghianti il quale, nei giorni dell’insurrezione di Firenze, all’inizio di agosto del 1944, proprio da quella radio pronunciò un discorso a nome del Comitato di Liberazione Nazionale.
La consegna della radio a Ragghianti rappresentò per Levi la fine dell’esperienza di Radio Co.Ra ma non della sua attività come resistente. Dopo Firenze infatti contribuì alla lotta partigiana nella zona di Arezzo e poi di Piacenza.
La guerra e i tedeschi in Italia intanto avevano strappato a Renato non solo i compagni di battaglia di Radio Co.Ra, ma anche il padre Alberto. Negli stessi giorni in cui Bocci e i suoi uomini venivano torturati a Villa Triste, Alberto Levi veniva arrestato a Trieste tradotto alla Risiera di San Sabba e poi deportato ad Auschwitz. Di lui, ci è rimasto un unico biglietto, scritto proprio durante il viaggio verso Auschwitz:
“14 giugno 1944. Carissima Gilda, come avrai appreso, martedì mattina siamo partiti con la famiglia Zaban e molti altri per la Polonia. Oggi a mano un simpatico brigadiere dei carabinieri ti invia la presente sperando che ti sarai ristabilita. Ti prego di rimettere i miei saluti a tutti e di riferire ai miei creditori, specialmente alla ditta Lupecle, che telefonerà al caso disastroso successo, assicurerò che i soldi ci sono e speriamo a breve di rivederci. Ti raccomando di avere prudenza e di mettere in salvo i clarini e quanto di valore, ma spero non succederanno altri guai. Saluti e baci a tutti. Affezionatissimo, Alberto”
Nel luglio del 1939, dopo le leggi antiebraiche fasciste e l’espulsione dalla Marina militare, Renato Levi emigrò a Parigi