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Lea Loewenwirth
Ancora adolescente portò in salvo la madre e i cinque fratelli più piccoli, conducendoli da Anversa, attraverso l'Europa occupata, fino a Roma
La storia di Lea Loewenwirth è una straordinaria vicenda di perseveranza, coraggio e fiducia nel futuro.
Prima figlia di Elia “Shlomo” Loewenwirth e di Helena Ickowicz, Lea Loewenwirth nacque il 2 gennaio del 1926 a Irsava in Cecoslovacchia.
Nel 1929 la famiglia Loewenwirth emigrò ad Anversa, in Belgio, in cerca di fortuna. La vita in un paese straniero non era facile, ma ciò non impedì ai Loewenwirth di far crescere la famiglia. Nel 1940, quando il Belgio fu raggiunto dalle prime cannonate della guerra hitleriana, Lea era già diventata la maggiore di cinque fratelli.
Come migliaia di altre persone, anche i Loewenwirth decisero di lasciare Anversa per dirigersi verso Parigi. Presero un treno che ad un certo punto fu colto da un pesante bombardamento. La famiglia in quel momento si sparpagliò: Lea, con il padre e due fratelli da una parte; la madre Helena e gli altri due fratelli da un’altra.
Grazie alla Croce Rossa ebbero notizie gli uni degli altri solo dopo otto mesi di separazione e angoscia. Mentre Lea, con il padre Elia e i due fratelli si trovavano nella Francia ormai occupata dai nazisti, Helena con i due figli più piccoli si trovavano nel sud della Francia.
A quel punto occorreva riunire la famiglia: fu in quel momento che Lea, appena quattordicenne, prese le redini della situazione. Voleva ad ogni costo ricongiungersi alla madre, ma per farlo doveva per forza munirsi di un lasciapassare ufficiale rilasciato dal comando tedesco – una cosa assurda solo a pensarci…
Ma lei, ostinata, all’insaputa del padre, si presentò al comando tedesco e chiese il permesso di espatrio, per sé e per i due fratelli, poco più giovani di lei.
Riuscì ad ottenere i permessi e partirono immediatamente, lasciando il padre ad Anversa.
In tasca avevano in tutto 10 marchi – il massimo che fu loro permesso di portare con sé.
Il viaggio verso il sud della Francia era tutt’altro che semplice: non solo per la fame e la stanchezza, ma soprattutto per le ispezioni dei tedeschi. Durante la sosta alla stazione di Lione, per esempio, in piena notte salirono sul treno due ufficiali tedeschi. Invitarono Lea a scendere, dato che era senza documenti; lei si rifiutò, disse che cercava la sua mamma, che non poteva rimanere a Lione senza soldi, senza sapere dove andare… alla fine riuscì miracolosamente a convincerli e a lasciarla proseguire il suo viaggio insieme ai due fratelli che, prontamente, finsero di dormire, per non destare sospetti.
Nel febbraio del 1941, finalmente, Lea riuscì a raggiungere Quarante, nel sud della Francia, dove poté riunirsi alla madre e ai due fratellini più piccoli. Poco più tardi anche il capofamiglia, Elia Loewenwirth, riuscì a raggiungerli. La famiglia nel frattempo era di nuovo cresciuta: agli inizi del 1941 infatti era nato Ben Zion Loewenwirth, il quinto fratello di Lea.
A Quarante i Loewenwirth si organizzarono come meglio poterono: “Mangiavamo rape, ma almeno i bambini più grandi potevano andare a scuola!”
La quiete durò poco. A metà agosto del 1942 le autorità francesi dichiararono che gli ebrei stranieri dovevano allontanarsi. Grazie a Lea i Loewenwirth trovarono rifugio a Chirac, sempre nel sud della Francia. Ma di nuovo furono raggiunti dalle autorità francesi: arrestarono tutti gli uomini ebrei da adibire al lavoro obbligatorio. Fra questi c’era anche Elia Loewenwirth.
Lea rimase di nuovo sola con la madre e i cinque fratelli più piccoli. E di nuovo, prese le redini della situazione. Si recò dal comandante francese, nel pieno della notte. Gli disse che suo padre doveva rientrare a casa per almeno un paio di giorni: c’era bisogno di lui per organizzare la vita della famiglia, rimasta senza guida e senza appoggio. Il comandante, sorpreso dell’intraprendenza della ragazzina, mandò a chiamare Elia Loewenwirth.
“Papà, vieni via veloce, andiamo in stazione, non importa quale treno viene e in quale direzione vada; prima di tutto dobbiamo allontanarci da qui” gli disse Lea non appena furono soli. Lea, ancora una volta decise per il padre. Aveva solo 16 anni ma ormai era lei la guida della famiglia.
“Salimmo sul primo treno che passò, poi saltammo su di un altro. Non valeva la pena di riportare papà a casa… si sentiva dire che nella zona di Nizza gli invasori erano italiani, e non tedeschi, e che erano più umani”.
Raggiunsero Nizza, che già era gremita di ebrei provenienti da tutta la Francia.
Lea lasciò il padre a Nizza e tornò da sola a Chirac a riprendere il resto della famiglia.
“Quando ripenso a quei giorni, non so come sia riuscita a fare tutto questo, non ho una spiegazione. Semplicemente, come un automa, sapevo che questo era ciò che dovevo fare”.
Alla fine del 1941 Lea e il resto della famiglia si ritrovarono riuniti a Nizza. Vi rimasero circa un mese, sostenuti dal Comitato di soccorso ebraico.
Col gennaio 1942 le autorità italiane occupanti il sud della Francia emanarono l’ordine di internamento nel comune di Saint Martin de Vésubie, ai piedi delle Alpi marittime, per tutti gli ebrei privi di residenza a Nizza.
A Saint Martin de Vésubie si trovarono radunati circa un migliaio di ebrei; le condizioni di vita erano tutto sommato buone, anche se occorreva presentarsi al comando militare italiano due volte al giorno.
I Loewenwirth vissero a Saint Martin de Vésubie per oltre un anno.
Con l’8 settembre 1943 la situazione si volse di nuovo al peggio. Mentre i militari italiani si smobilitavano, i tedeschi avanzavano verso il sud della Francia. Gli ebrei si misero in marcia verso l’Italia seguendo, su per le montagne senza alcun tipo di equipaggiamento, i soldati italiani. Anche i Loewenwirth e i loro sei figli si misero in marcia. Si diressero verso il Colle di Finestra, a 2600 metri e dopo giorni di cammino passarono il confine. Giunsero a Valdieri, un paese in provincia di Cuneo, a poca distanza da Borgo San Dalmazzo, dove erano già arrivati i tedeschi: fu come cadere in trappola…
Il 18 settembre 1943 le autorità tedesche a Borgo San Dalmazzo esposero un manifesto nella piazza centrale del paese, sul quale si leggeva:
“Entro le ore 18 di oggi, tutti gli stranieri che si trovano nel territorio di Borgo San Dalmazzo e dei comuni vicini devono presentarsi al Comando Germanico in Borgo San Dalmazzo, Caserma degli Alpini. Trascorso tale termine, tutti gli stranieri che non si saranno presentati verranno immediatamente fucilati. La stessa pena toccherà a coloro nella cui abitazione detti stranieri verranno trovati. Firmato: Il comandante germanico delle SS, Capitano Müller”.
Elia Loewenwirth, ormai stremato, voleva consegnarsi ai tedeschi, ma Lea si oppose con veemenza. Andò a chiedere aiuto al prete di Borgo San Dalmazzo, don Raimondo Viale. Don Viale era un antifascista, e di fronte alla disperazione della giovane Lea, escogitò un piano per portare in salvo tutta la famiglia Loewenwirth. Dopo quasi due giorni trascorsi in una grotta i Loewenwirth furono raggiunti da un rappresentante della Delasem, l’organizzazione ebraica clandestina per il soccorso dei profughi ebrei in Italia, che riuscì a condurli in salvo, prima a Genova e poi da lì, a Firenze.
A Firenze, già occupata dai tedeschi, Lea e la sua famiglia trovarono soccorso grazie all’intervento del Cardinal Elia Dalla Costa.
La famiglia venne divisa: Lea, la madre Helena e il fratellino Ben Zion vennero ricoverate nel convento delle Missionarie di Maria, in piazza del Carmine; gli altri tre fratelli trovarono ricovero in altri conventi, mentre il padre, Elia Loewenwirth, venne rinchiuso in un appartamento privato, affittato dalla Delasem.
Il 26 novembre 1943 accadde un fatto terribile: i tedeschi fecero irruzione nel convento delle Missionarie di Maria.
Al mattino successivo altri tre ufficiali tedeschi si presentarono al convento.
Lea nascose i documenti della famiglia sotto il materasso. Quando uno dei tre tedeschi chiese se qualcuno sapeva il tedesco per tradurre gli ordini, Lea, prontissima, si presentò.
L’ufficiale chiese i dati personali di ogni donna presente in convento e chiese a Lea di quale nazionalità fosse. “Ungherese!”, rispose sicura Lea. In realtà ungherese era la madre di Lea, Helena; ma Lea non sapeva una parola in quella lingua! Quando l’ufficiale tedesco le chiese i documenti, Lea rispose, mentendo: “Li abbiamo persi”. “Come vuoi che ti creda”, gli rispose quello. “Provi a parlarmi in ungherese”, disse Lea. Lui la guardò a lungo e poi la lasciò libera. Lea intuì che “Ungheria!” era la parola magica. Tornò dalla madre e le disse, sussurrando, di far dire anche dalle altre di essere ungheresi. Riuscì ad aiutare, così, una decina di persone.
Le altre nel giro di meno di due giorni vennero arrestate e scomparvero. Fu come se fossero state inghiottite dalla terra, raccontò molti anni dopo Lea stessa.
Dopo essere sfuggita all’arresto, Lea andava regolarmente a trovare il padre, sempre nascosto nella casa messa a disposizione dalla Delasem. Ma il 5 gennaio 1944 non lo trovò in casa. Venne a sapere in seguito che era stato arrestato assieme ad altri compagni, profughi come lui. Quella casa vuota fece capire a Lea che la situazione si stava facendo di nuovo pericolosa, e che occorreva lasciare al più presto Firenze e il convento delle Suore di Maria. Dovevano trasferirsi a Roma dove avrebbero potuto appoggiarsi ad un comitato di soccorso ebraico-clandestino, in collegamento con la Delasem. Seppe di un frate cappuccino, Padre Benedetto Maria, che dal suo convento in via Sicilia coordinava i soccorsi. Lea mise la madre e i due fratelli più piccoli su un treno diretto a Roma, da frate Benedetto Maria, mentre lei rimase a Firenze per cercare di capire cosa fosse accaduto al padre. Si recò dal console ungherese a Firenze, in procinto di lasciare la città, e riuscì a farsi fare carte di identità ungheresi sia per sé stessa sia per il padre, benché scomparso.
Dopo due settimane di ricerche affannose, Lea venne a sapere che il padre si trovava nel carcere delle Murate, a Firenze. Per sei settimane riuscì a fargli avere pacchi di viveri senza poterlo vedere mai.
Nel frattempo, ricevette notizie dalla madre. Era giunta sana e salva a Roma e si trovava nascosta insieme ai due fratellini e ad un’altra famiglia; le chiedeva di raggiungerla a Roma insieme agli altri fratelli.
Non si rendeva conto di quello che le stava chiedendo! Andare a Roma in quei giorni era quasi impossibile: il fronte era in movimento, le tradotte erano piene di tedeschi e i fascisti controllavano ossessivamente tutti i passeggeri.
Lea, prelevati i due fratelli dal convento, si incamminò con loro verso Roma, chiedendo rischiosamente passaggi in auto. Dopo cinque giorni di viaggio, raggiunse Perugia dove venne ospitata con i fratelli da alcune generose famiglie del posto. Il viaggio verso Roma, anche attraverso il passaggio rischiosissimo su camionette tedesche, durò parecchi giorni.
A Roma Lea volle conoscere padre Benedetto Maria di cui aveva tanto sentito parlare e che stava aiutando la sua mamma. Mentre era a colloquio con lui al convento di via Sicilia 159, entrò uno dei militanti della Delasem, che disse che bisognava trovare qualcuno disposto ad andare tra i monti del Piemonte a portare denaro e documenti falsi ad ebrei giunti dalla Francia. Ne erano dunque rimasti altri là da dove era arrivata la famiglia di Lea!
La ragazza si offrì di assumersi lei stessa quella missione. Non ebbe nessun indirizzo, una volta arrivata in montagna doveva chiedere ai contadini dei dintorni se conoscevano ebrei rifugiati. Benedetto Maria benedisse la ragazza, e le diede denaro della Delasem da distribuire ai bisognosi. A quel punto, Lea riprese il treno per Firenze per non mancare la visita al carcere dove era rinchiuso il padre.
Là ebbe la brutta sorpresa di non trovare più né Elia, né i suoi compagni di prigionia.
Fu una terribile delusione: di nuovo, suo padre era sparito.
Ma non poteva indugiare, aveva in tasca 15 documenti falsi da portare in Piemonte. A Torino prese un treno diretto a Borgo San Dalmazzo. C’era neve dappertutto, non sapeva dove scendere, a chi rivolgersi, andò fino alla fine della corsa. In quella stazioncina finale trovò due persone che le chiesero se era lei, Loewenwirth: aveva trovato finalmente il suo contatto. Consegnò i documenti e ripartì verso Firenze alla ricerca del padre.
Tornò al convento, nella sala vuota dove tutto era successo, si sentiva terribilmente sola, si ammalò, forse per la troppa tensione accumulata.
In convento, sola, affranta, lesse le storie di Gesù e cominciò ad interessarsi alla religione cristiana.
Il 10 marzo 1944 ricevette, finalmente, una cartolina dal padre. Si trovava prigioniero nel campo di concentramento di Fossoli vicino a Carpi. Ne ricevette un’altra quasi due mesi dopo, il 17 maggio e poi più nulla. Scoprì solo più tardi che proprio il giorno prima di quell’ultima lettera, suo padre, era partito “per ignota destinazione”. Non lo rivide mai più.
Intanto però la madre e i suoi 5 fratelli erano tutti salvi. Dopo la fine della guerra, emigrarono insieme in Israele, per cominciare una nuova vita.
Lea invece non partì; rimase a Firenze, si convertì al cristianesimo. Si fece suora, per poi ricambiare idea, tornare all’ebraismo e fare felice un uomo che sarà la ragione della sua vita.
Riferimenti bibliografici
Lea Reuveni, Dedizione, a cura di G. Tagliacozzo, Le Château, Aosta 2003
Liliana Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah, Einaudi, Torino 2017, pp. 367-372