
Adolfo Perugia
Entrato tredicenne a far parte del Fronte della Gioventù di Eugenio Curiel, trasportava per la Resistenza le armi da una parte all’altra della città.
Adolfo Perugia, nato a Roma il 4 aprile 1931, durante l’occupazione tedesca aveva 12 anni.
Così ricorda quell’epoca: “Mio padre lavorava al Ministero delle Poste, era libertario e antifascista e, per questa ragione, nel 1937 fu licenziato dal Ministero. Appartenevo ad una famiglia perseguitata dal fascismo anche prima delle leggi antiebraiche uscite nel settembre del 1938. In quell’anno perdemmo la casa e militi di guardia al Ministero presero mio padre e gli diedero l’olio di ricino, una violenza e una tipica punizione privata contro chi non si allineava ai comportamenti fascisti. Anche mia sorella Virginia che era malaticcia e ricoverata al convalescenziario di Fara Sabina in provincia di Rieti fu buttata fuori e nel 1940 morì perché privata di assistenza medica.”
I Perugia subirono anche altre persecuzioni, i fascisti impedirono a Adolfo di frequentare la scuola, anche la scuola ebraica, e, con la madre, fu fermato e, alla Garbatella dove abitavano, furono portati alla Casa della Milizia: volevano sapere dove era andato a finire il padre, Settimio, che, nel frattempo, era entrato in clandestinità con il movimento Giustizia e Libertà.
Adolfo che aveva allora 9 anni smise di andare a scuola.
Andò a lavorare ai grandi magazzini in corso Vittorio, di proprietà dei Della Seta, che non potevano comparire a causa delle leggi antiebraiche e che avevano affidato il negozio a un non ebreo. Per due mesi, riuscì a portare denaro utile a casa; non faceva quasi nulla, era una forma di sostentamento offerta da persone ancora abbienti che volevano aiutare la sua famiglia. Un certo giorno, vicino a palazzo Braschi, una marcia di fascisti sfilò, con molto rumore e tanti gagliardetti, Adolfo, che era ancora un bambino, incuriosito uscì all’esterno. Tra i fascisti c’erano dei militi delle Poste che lo riconobbero, presero lui ed il padrone dei grandi magazzini e li portarono a palazzo Braschi. Il padrone fu picchiato; i fascisti lo rimproverarono: “Oltre ad avere un ebreo, c’hai anche il figlio di un antifascista al tuo servizio.” Adolfo si allontanò, ma il suo datore di lavoro ne prese tante.
Quando, a fine settembre del 1943, i nazisti divenuti occupanti dell’Italia, chiesero alla comunità ebraica di Roma 50 chili d’oro come ingannevole ricatto. La famiglia di Adolfo, la famiglia Dell’Ariccia e quella di Lello Perugia furono le uniche ad opporsi: anziché cedere, volevano prendere le armi e ribellarsi.
Da alcuni anni ormai, Adolfo e la sua famiglia vivevano alla meno peggio. La sua mamma, la signora Elena, era sempre disperata. Si appoggiava molto a suo fratello, Corrado, che era uno dei capi della brigata Bandiera Rossa, e divenne anche lei attivista della formazione. Adolfo aveva la famiglia divisa tra il movimento GL e i comunisti.
Da quando avevano perso la casa, i Perugia vivevano dai nonni materni, in viale Aurelio Saffi. Il 16 ottobre 1943, di buon mattino, il nonno uscì a procurarsi le sigarette.
Così Adolfo racconta: “Lo vedemmo tornare a casa dopo poco, tutto trafelato: “Preparatevi, preparatevi, che stanno portando via gli ebrei!”. Come pazzi, bussammo alla porta dei vicini, i signori Domenicantonio. Ci fecero entrare in fretta e, avendo un’uscita con un cancelletto che saliva per il Gianicolo, ci fecero passare da lì. Eravamo in sei: i nonni Pace, io, mia sorella Anna e i miei genitori. Era una giornata piovosa, scendeva una pioggia fitta fitta, ma fina fina. Arrivammo verso villa Sciarra, poi prendemmo il Lungotevere. Non sapevamo dove andare. “Nun ve rivoltate! Nun ve rivoltate” ci incalzava papà. Camminando, tornammo alla Garbatella verso la nostra vecchia casa.”
“Dapprima”, continua, “riparammo presso i sacerdoti che conoscevamo, padre Alessandro Daelli e padre Alfredo Melani, nella chiesa di Sant’Eurasia, dove trovammo nascoste una sessantina di persone tra militari, fuggiaschi ed ebrei. Poi, per sicurezza, dovemmo separarci: mio padre si rifugiò in un ospedale, mia mamma e mia sorella presso le suore a Monteverde.”
Adolfo, insieme a cugini, invece, prese un carretto, ci mise sopra delle cianfrusaglie, come facevano i sinistrati che venivano dalla Bassa Italia, ed entrò nell’edificio dell’asilo ebraico. Si nascosero là sotto, in cantina. Con loro c’era anche Cesare Tedesco, poi fucilato alle Fosse Ardeatine.
Vicino al cinema Don Orione c’era il centro delle formazioni comuniste; Adolfo ci andò di soppiatto ed entrò a far parte del Fronte della Gioventù di Eugenio Curiel. Trasportava le armi da una parte all’altra della città.
“Dieci giorni prima della liberazione di Roma”, racconta, “mi fu data in mano un’arma e mi fu dato il compito di sorvegliare gli acquedotti e i ponti per sventare i tentativi di minamento dei nazisti. Ci scontrammo con cecchini tedeschi. Della mia formazione, cinque erano ebrei, tra cui Adolfo Amati e lo zio Serafino Pace.”
Mentre si stava sparando da ponte Sublicio verso piazza dei Cavalieri di Malta dove erano arroccati i tedeschi. Udii, all’interno di un’altra formazione di partigiani, che qualcuno chiamava: “Ehi! Di Consiglio!”. Stupito perché si trattava di un cognome ebraico, gridai a mia volta dal mio gruppo: “Siamo ivrìm”. Mi sentii apostrofare: “Sì, ma tu chi sei? – “Sono Adolfo Perugia”, gridai di rimando. L’altro partigiano replicò: “A me mi chiamano Moretto”. Moretto era il soprannome di Pacifico Di Consiglio. Da lì, nacque un’amicizia tra noi che durò tutta la vita.”
La notte tra il 3 e il 4 giugno, passando da ponte a ponte, Adolfo ed i suoi compagni arrivarono al ponte Margherita di Savoia e a Regina Coeli. Mentre andavano verso il carcere, videro che alcuni partigiani prima di loro avevano aperto i portoni. Prigionieri politici ed ebrei uscivano a frotte; Adolfo vide uscire dal carcere suo nonno, Emanuele Pace. Rimase stupefatto, lo chiamò: “Nonno, nonno! E gli zii dove stanno?”. Il nonno rispose: “Li hanno portati via, non so dove”.
Lo zio Corrado Pace era stato catturato a Ponte Garibaldi; aveva anche con sé i manifestini di Bandiera Rossa. Fu torturato e deportato: non fece ritorno dai campi di sterminio. Gli zii del padre: Bruno, Carlo e Giacomo Curiel furono anch’essi deportati e scomparsi nella Shoà.
“Con il mio gruppetto, continuammo il giro dei ponti. Arrivati a ponte Milvio, vedemmo diciotto camionette americane. Erano una truppa di avanguardia americana, comandata dal generale Frederick. Ci videro ci salutarono e ci abbracciarono. Poi, ci affidarono un compito di polizia: trovare soldati tedeschi e farli prigionieri. In seguito, vedemmo arrivare camionette della Brigata Ebraica, gli gridammo: “Jewish! Jewish!”, era una gran festa. Giungendo in via del Tritone vedemmo per la prima volta una bandiera con la stella di Davide. L’aveva esposta un’insegnante ebrea, la Sorani, che aveva preso un lenzuolo bianco e, con i nastri azzurri degli allievi, ci aveva fatto la stella in mezzo. Non si può immaginare la nostra emozione.”
Molti anni dopo, i Perugia chiesero e ottennero, nel 1999, per Padre Alessandro Daelli e padre Alfredo Melani il riconoscimento di Giusti tra le Nazioni.
Adolfo è stato per ventidue anni consigliere della comunità ebraica di Roma, dell’Ospedale Israelitico e della Deputazione Ebraica di Assistenza oltre che presidente dell’Associazione Nazionale Antifascista Miriam Novitch.
Con la sua la vita, con il suo impegno civile, ha testimoniato in favore della comunità ebraica romana e della memoria.