
Bruno Dell’Ariccia
Nato a Roma, insieme al fratello fece fuggire dal retro della Caserma Podgora i carabinieri addetti alla fureria, agli spacci e ai depositi che stavano per essere arrestati, combatté fino al febbraio del 1944 e si infiltrò nell’esercito repubblichino.
Bruno dell’Ariccia era un giovane di 28 anni che lavorava nella cartoleria del padre a Roma, Talvolta, nel negozio si riunivano amici antifascisti per discutere della situazione politica dell’Italia.
Dopo il giugno del 1940 e l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, il gruppo si riuniva clandestinamente anche al Bar Rosati, dove furono tutti colti e dispersi dalla polizia.
L’8 settembre del 1943 e l’annuncio dell’armistizio, primo pensiero di quei giovani fu di raccogliere armi, dovunque si trovassero, per cercare di contrastare la presa di Roma da parte tedesca. A Bruno si unì il fratello Ernesto.
Poi giunse il 26 settembre, i capi della comunità ebraica romana furono vittime del ricatto di 50 chili d’oro in cambio del non prelevamento di 200 giovani come ostaggi. I due fratelli dissero ai loro correligionari di non fidarsi e predicarono, inascoltati, la ribellione.
Il 7 ottobre 1943 a Roma, Il primo atto di ostilità tedesca verso gli italiani fu di arrestare i carabinieri locali che dovevano essere puniti per essere rimasti fedeli alla monarchia che aveva arrestato Mussolini il 25 luglio precedente.
Quella fu anche l’occasione per i fratelli Dell’Ariccia e del loro gruppetto di fare qualcosa, spontaneamente, senza nessuna organizzazione alle spalle. Militari tedeschi circondarono la caserma Podgora, principale sede dei carabinieri, in Via Garibaldi per arrestarli e deportarli in Germania.
Quello stesso giorno, Bruno e Ernesto, con alcuni amici, penetrarono nel bosco Parrasio alle spalle della caserma, fecero prigionieri i tedeschi di guardia e li rinchiusero in un deposito. Mentre altri militi tedeschi radunavano i carabinieri nel cortile antistante, i Dell’Ariccia fecero fuggire dal retro gli addetti alla fureria, agli spacci e ai depositi.
Il 16 ottobre successivo, l’inganno tedesco si compì. LE SS organizzarono il tragico rastrellamento in cui cadde vittima più di un migliaio di ebrei romani. Anche i Dell’Ariccia pagarono un altissimo prezzo: subirono l’arresto del loro fratello Manlio, di sua moglie Ada e dei due bambini, Lello e Alba.
Così descrive Bruno il fatto: “ricevetti una telefonata che avvertiva che stavano razziando gli ebrei. Scappai per avvertire un altro mio fratello: ma proprio nel momento in cui arrivavo, egli stava scendendo le scale, con la moglie e i due figli, circondati da tedeschi armati. Dovetti assistere impassibile alla loro deportazione. Furono momenti di indecisione angosciosa: volevo sparare, ma vidi i miei nipoti, due bambini di 26 mesi l’uno e 9 mesi l’altro sotto il tiro del mitra tedesco. Non abbiamo più saputo nulla di loro.”
“Se prima odiavo i nazifascisti e volevo lottare per liberare l’Italia da questa piaga, da quel giorno orribile, il mio furore non conobbe sosta. Subito dopo il 16 ottobre entrai a far parte di un gruppo dell’organizzazione del colonnello Montezemolo e partecipai a varie azioni di guerra. Il nostro nascondiglio era all’ospedale Santo Spirito. Fummo traditi non so da chi: mentre ero fuori, presero mio fratello Ernesto che combatteva con me, lo portarono al carcere di Regina Coeli dove lo interrogarono e lo torturarono. Poi, anche di lui non seppi più nulla.” Ernesto Dell’Ariccia fu infatti tradotto al campo di Fossoli e da lì deportato verso il campo di sterminio di Auschwitz il 5 aprile 1944.
Bruno Dell’Ariccia combattè fino al febbraio del 1944, quando i superiori gli chiesero di sospendere la sua attività in favore di un lavoro di intelligence. Compito difficile e delicato che richiedeva una perfetta conoscenza della burocrazia e una certa confidenza con impiegati di vari uffici. Occorreva costante aggiornamento delle disposizioni allora vigenti per procurare tessere, documenti, falsi permessi di circolazione, indispensabili alla sopravvivenza della Resistenza.
“Ma non solo”, racconta Dell’Ariccia, “ebbi anche l’ordine di arruolarmi nell’esercito repubblicano fascista sotto il nome del tenente Antonio Ferrario Corsetti, persona esistente, ma prigioniero degli inglesi. Io non potei fare altro che ubbidire.”
“Per venti giorni un istruttore mi informò di tutto quanto riguardava questa persona: suo paese d’origine, sua vita privata, componenti della sua famiglia. In breve: dovevo diventare “lui”.
Come ufficiale dell’esercito di Salò, Dell’Ariccia ebbe modo di essere informato dei movimenti delle truppe e poté trasmettere regolarmente molte informazioni militari, che altri facevano arrivare al Comando alleato.
“Ero in costante pericolo di essere scoperto”, racconta “ma, per temperamento, avrei preferito la vita da partigiano combattente. I miei superiori insistevano e cercavano di convincermi che ero assai più utile in questa mansione che non si poteva affidare a chiunque. Di fatto, senza entusiasmo, feci un lavoro logorante e ripetitivo: feci l’eroe da scrittoio”.
Dell’Ariccia a lungo, pensò di non aver fatto abbastanza per la Resistenza, ma se scoperto, avrebbe avuto la terribile sorte di essere torturato a morte per confessare l’organizzazione antifascista e antinazista cui faceva capo.