
Franco Momigliano
Fece parte della Resistenza in Val Germanasca per il Partito d’Azione, in seguito si spostò a Milano dove agli inizi del marzo 1944 fu catturato e imprigionato nel carcere di San Vittore, rendendosi protagonista di una spettacolare fuga.
Mila nacque a Torino il 31 dicembre 1914, laureata in lettere, condivideva le idee antifasciste del fratello, Franco, avvocato, nato nel 1916. Dato che non poteva più insegnare a causa delle leggi antiebraiche, Mila si impiegò come segretaria della scuola ebraica di Torino. Fu staffetta partigiana per il Partito d’Azione.
Franco Momigliano faceva parte della Resistenza in Val Germanasca come commissario politico nel quadro del Partito d’Azione. Dopo i rastrellamenti in Val Germanasca, si era spostato a Milano dove, agli inizi del marzo 1944, fu riconosciuto alla Stazione Centrale, catturato e imprigionato al carcere di San Vittore.
“Un giorno”, racconta Mila, “ricevetti una busta che veniva dal carcere di San Vittore, era di Franco. Mi hanno preso, ho poche speranze. Troppe prove contro di me. Fa coraggio a mamma e mandami su qualcosa da mangiare e da cambiarmi.”
Decise di partire per Milano, aveva un solo nome e un solo indirizzo anche esso già segnalato o pericoloso o già inutile. Giunse a Milano in una mattina grigia di nebbia e di silenzio. Le case erano tutte vuote e nere, le macerie erano ovunque. Rimase sbigottita: tutta la città era colpita, sventrata dai bombardamenti, molto più che Torino.
“Il mio problema”, racconta, “era trovare Vittorio Foa per chiedergli aiuto. Cercai la casa di Carla Consonni, l’unico recapito che avevo. A quell’epoca le portinaie facevano buona guardia ed erano infide: mi scrutò bene bene e mi disse la signorina è via, la signorina riceve troppi amici È meglio che se ne vada. Timidamente, le chiesi se poteva tenermi la valigia per un’ora lei mi disse di no e mi cacciò via.”
“Mi recai al carcere di San Vittore, gironzolando intorno, vidi parecchie donne che facevano la fila e chiesi come si poteva fare per far avere un pacco ad un carcerato. Mi diedero molti buoni consigli. Mi dissero anche che si poteva trovare un carceriere disposto a portare, dentro e fuori, bigliettini.”
Mila era decisa a trovare una strada per far evadere il fratello prima che gli interrogatori dovessero far precipitare le cose. Ma dove trovare aiuto?
Incontrò una quantità di persone, alcune fidate, altre no, qualche approfittatore, qualche compagno antifascista. Alla fine, decise di rientrare a Torino per consigliarsi con gli amici del gruppo. Proprio, mentre si recava alla stazione, accompagnata da Carla, ad un angolo di strada appoggiato ad un muro, come una visione, vide che c’era Vittorio Foa:
“Gli passai davanti senza quasi vederlo, ma poi, appena l’ebbi oltrepassato, il mento, la fronte di quel volto mi riaffiorarono. Non è possibile mi dissi. Ma sì, era lui, Vittorio Foa apparso come un miracolo, lui che tutti cercavano e nessuno sapeva dove trovare. L’amico di Franco che sia pur vagamente conoscevo, la persona più importante del partito a Milano”.
“Mi avvicinai a lui e guardandomi intorno, a voce bassa: lei è Vittorio? Chiesi. Lui mosse solo gli occhi su di me con sospettosa diffidenza. Sono la sorella di Franco…Lui con uno scatto mi prese sottobraccio e guardandosi intorno con disinvoltura: andiamo a prendere un caffè.
Credo di non aver mai provato un’ammirazione così sconfinata per qualcuno come per Vittorio in quei giorni. Fu, in quel periodo, così umano e coraggioso, così forte e silenzioso. Fu Vittorio a salvare Franco. Mi rimandò a Torino”
Ecco come si svolsero i fatti, raccontati dallo stesso Franco: “Fui arrestato a Milano nel marzo del 1944 e portato a San Vittore per interrogatorio nel primo raggio che era controllato dalla polizia italiana, non dai tedeschi. La carta di identità che avevo al momento dell’arresto era intestata a un tale De Regibus. Per due mesi fui interrogato un giorno si e uno no per parecchie ore perché volevano ottenere informazioni e poter procedere a nuovi arresti. Alla fine, scoprirono il mio vero nome e aspettavo da un momento all’altro che mi consegnassero ai tedeschi. La mia sorte, perché ero partigiano, o perché ero ebreo era segnata.”
Alla fine di aprile del 1944, Franco fu avvicinato da uno scopino del carcere, – gli scopini erano gli unici che avevano libertà di movimenti all’interno del carcere -, che gli disse che aveva una visita. Fu molto stupito, lo scopino gli fece indossare una giacca delle sue, una specie di divisa e lo portò in un alloggio di una delle guardie.
“Con enorme stupore e gioia vidi Lisetta, la moglie di Vittorio Foa che aveva corrotto una guardia ed era riuscita ad entrare. Mi chiese come andavano gli interrogatori, se bisognava avvertire qualcuno, se c’era qualche rischio per l’organizzazione. Le dissi che non volevo che nessuno si mettesse in pericolo per tentare di farmi fuggire. Proibivo assolutamente che si facesse quel tentativo.”
Passò un altro mese, verso l’una del pomeriggio, arrivò una guardia ad avvisarlo di tenersi pronto entro un’ora e di fare il suo fagottino perché sarebbe stato scarcerato.
“Certo, pensai, si trattava di una scusa perché non opponessi resistenza, probabilmente sarei stato portato a una fucilazione o sarei stato consegnato ai tedeschi.”
Dopo circa un’ora e mezza venne un’altra guardia che gli disse di sbrigarsi perché ormai doveva essere scarcerato. Franco prese con sé un piccolissimo pacco, tanto per non dare l’impressione di non credere a quella dichiarata scarcerazione. La guardia addetta all’ufficio matricola cominciò a procedere alle formalità per la dimissione. Si doveva apporre una firma che doveva corrispondere a quella di entrata nel carcere. Il questurino gli si avvicinò e gli fece uno strano cenno ammiccando con l’occhio. Franco rimase piuttosto interdetto, non riusciva a capire quale significato avesse la cosa, assolutamente non sospettava di nulla.
La guardia dell’ufficio matricola cominciò ad interrogarlo, lui si accorse di aver dimenticato le generalità false che aveva dato all’inizio. Se non le diceva, tutta la pratica si sarebbe fermata con non si sa quali conseguenze. Finalmente, attraverso uno sforzo mnemonico impari, riuscì a farsi venire in mente il suo falso anno di nascita, il falso nome dei suoi genitori e la sua falsa residenza. Appose la sua falsa firma. Le guardie fecero segno a lui e al questurino che potevano andare. Questi lo afferrò in modo brutale dicendo “Andiamo in questura!”
“Con mio grande stupore”, racconta Franco, “mi accorsi che il questurino infilava prima un corridoio, poi un altro e che ci eravamo perduti all’interno del carcere. Mi convinsi, solo allora, che si trattava di un partigiano che tentava di liberarmi. Lui mi disse: Parri ti manda a salutare. Aiutami a trovare l’uscita. Non potevamo certo chiedere a nessuno dove fosse l’uscita”
Finalmente, i due riuscirono a ritrovare la strada giusta. Mancava solo di attraverso l’ultimo cortile con l’ultima porta, quella verso l’esterno. “Ma come avete fatto?” chiese. Il compagno rispose “Il mandato di scarcerazione è falso, io ho in tasca una rivoltella e una bomba. Se si accorgono che è falso prima che arriviamo alla porta, spariamo e cerchiamo di ammazzare più tedeschi e fascisti che possiamo.”
Il percorso era di un centinaio di metri, una distanza che non finiva più. Arrivarono finalmente all’ultima porta del carcere dove c’era una guardia. Lui chiese loro il lasciapassare che non avevano. Si fermarono interdetti. Per caso passò di là una guardia che aveva assistito all’ufficio matricola alle dimissioni di Franco, disse “si si ho visto io che la scarcerazione è autorizzata.”
Il milite aprì la porta e disse andate pure. “Uscimmo all’aria aperta fuori dal carcere e incominciammo ad attraversare lentamente il piazzale davanti al carcere. Lui mi teneva saldamente per il braccio. Non potevamo metterci a correre per non destare sospetti.”
All’angolo il compagno disse “ora mettiti a correre, all’altra traversa c’è una macchina che ti aspetta, saltaci su”.
Questa è la storia dell’evasione di Franco, fratello di Mila che, in seguito rimase nascosto prima a Milano e poi a Torino, protetto dagli amici resistenti.
Franco descrisse il fatto come una cosa così poco emozionante dal punto di vista suo personale e così eroica da parte di chi l’aiutò.
Gli autori del “colpo” erano due partigiani della squadra GAP di Milano, uno era un ex carabiniere, passato dalla parte dei partigiani, l’altro era uno studente. Si erano offerti volontari per quella pericolosissima missione. Non avevano documenti falsi, ma solo due copertine di tessere di poliziotto, vuote all’interno e prive di fotografie, non erano riusciti a procurarsi niente di meglio. Avevano in mano un mandato di scarcerazione falso costruito da un esperto disegnatore e un tipografo, i timbri erano stati prodotti da amici dell’accademia di Brera esperti di pittura. Il colore dei timbri era molto particolare e ci avevano messo ore per riuscire ad imitarlo.
Così si espresse Franco: “fu una cosa veramente eroica da parte di due ragazzi che rischiarono la vita con 999 probabilità su 1000 di perderla per salvare la vita di una persona che mai avevano visto e che probabilmente non avrebbe visto mai più. So il nome di uno solo di loro: è Bruno Ortu, un vero Giusto fra le Nazioni”.